Quali e quante gradazioni vivono nella soavità e nella levità delle sculture di Andrea Bucci, che pur venendo ad abitare la nostra realtà non vogliono dismettere il ricordo della loro origine onirica e surreale. Ben piantate in questo, anelano ad un altro mondo: vogliono tornare, semplicemente, da dove sono venute. Desiderano – il desiderio è sempre una preghiera – fino allo spasmo, alla distorsione plastica, all’espansione anatomica, alla dilatazione che non corrompe la grazia della linea, ma che anzi la distende, la carezza e la conforta. L’appesantirsi per spiccare il volo è proprio di queste creature, che lanciano il loro spago all’universo, che si fondono in un’ansia sublime, nella sete stessa d’infinito, vivendo la verità perenne di un destino da cui è impossibile fuggire. Racconto di assolute infinità, di metamorfosi dolcissime, la scultura di Bucci risplende nella politezza del modellato, dimostrando la sua grande sensibilità nel plasmare l’argilla come fosse un sogno.